Il futuro (incerto) della democrazia

 Sheri Berman, in “Democracy, Banks, and the Current Euro Crisis” (Dissent) si (e ci) chiede: perché in questa crisi i leaders democratici devono affidarsi a — o scendere a patti con — tecnocrati non eletti dal popolo? Perché il problema se lo pongono in pochi? Semplice, rispondo io: la gravità della crisi anestetizza le facoltà critiche: “intellettuali e popolo” si illudono che questa sia una fase transitoria – congiunturale – della nostra vita democratica. Dopo l’eccezione – la dittatura dei tecnici e degli onesti –, si tornerà alla regola. Non è così. Il fenomeno è strutturale: la forza di gravità della tecnocrazia è aumentata; forse è irresistibile. Norberto Bobbio lo aveva capito già negli anni Ottanta. (a) Tecnocrazia e democrazia sono antitetiche (Il futuro della democrazia) – l’esperto, che non è un cittadino qualunque, vuole avocare a sé il potere di governare: la techné è il principio di legittimità; il politico, invece, è autorevole perché eletto dal demos, e ritiene di poter decidere su tutto, anche se è privo di competenze tecniche; (b) la società post-industriale sta scivolando verso una riedizione, in forme ingannevoli, dello Stato assoluto. Anche i cittadini vanno tenuti alla larga dagli arcana imperii, dominio esclusivo di coloro che sanno: i tecnocrati-sapienti, adepti di una nuova setta gnostica. La tecnocrazia prorompe dal ventre dell’Occidente, è figlia di uno sviluppo abnorme, prometeico. Una società sempre più dominata dalla tecnica pretende, dai propri governanti, cognizioni scientifiche e tecniche specialistiche. Siamo a un crocevia, dunque. Chi avrà la meglio, la techné o il demos? Un fatto è certo: la madre di tutte le battaglie si combatterà sul terreno economico-finanziario (rivincita postuma di Marx!). La posta in gioco non è la bioetica o l’esplorazione dello spazio. Non a caso, sia Bobbio che Berman parlano soprattutto di inflazione, disoccupazione, creazione e redistribuzione della ricchezza. Che fare, dunque? La Berman indica la via maestra: demolire il mito della tecnicità del governo e riaffermare il primato della politica. A partire dalla politica economica e monetaria. Montesquieu non incluse fra i poteri autonomi – legislativo, esecutivo, giudiziario – il potere finanziario! Eppure quasi nessuno mette in discussione il dogma dell’indipendenza della banca centrale europea dai governi. L’argomento tecnocratico va per la maggiore: i politici, che sono inesperti, non capirebbero la complessità delle politiche monetarie. E, per di più, i politici sono alla mercé dei cittadini, che pensano solo all’oggi, giammai al domani. I tecnici, invece, dominano una materia complessa e hanno lo sguardo lungimirante di un’aquila! Un ragionamento a dir poco paternalistico.

 Certo, c’è un grumo di verità nell’argomento tecnocratico – il dominio della tecnica in ogni sfera dell’attività umana pone sfide inedite. Ma l’argomento è comunque fallace, per via delle implicazioni. A rigor di logica, è inevitabile l’effetto domino sulla politica di governo in quanto tale: chi comprende tutti gli aspetti della riforma sanitaria? Chi ha le conoscenze per esprimersi sulla politica estera del proprio Paese? Come volevasi dimostrare: la tecnocrazia è il veleno della democrazia. Berman va dritto al cuore delle questioni: le banche autonome dal potere politico sono davvero più efficienti? Solo in parte. Finora hanno saputo domare quella bestia nera che è l’inflazione. A un prezzo, però: l’aumento della disoccupazione, il calo della produzione. Il punto dirimente è: chi decide quali sono i risultati migliori, ottimali per il popolo (sovrano)? Gli economisti di chiara fama? I premi nobel? Anche costoro raramente sono d’accordo. Qual è, per esempio, il tasso desiderabile di inflazione? Siccome nessuno lo sa — la risposta dipende dal modello di comunità e dal tipo di sviluppo che si ha in mente, cose che solo la politica può decidere — non si capisce perché le banche debbano essere avulse dal potere del demos.

La libertà genera più benessere della tirannia. Ma l’essenza della democrazia non risiede nell’efficacia economica, nei risultati concreti che produce, bensì nella legittimità del processo mediante il quale quei risultati vengono raggiunti. La democrazia, con tutti i suoi limiti — e noi italiani ne sappiamo qualcosa! –, è il miglior sistema sperimentato finora. Questo perché i cittadini partecipano ai processi decisionali che determinano il loro destino. La democrazia, geniale definizione di Lincoln, è “goverment of the people, by the people, for the people”. Quelle preposizioni – che puntellano l’unico sostantivo, reiterato ben tre volte — delimitano l’ethos democratico, ne racchiudono la forza morale. La democrazia si regge sul consenso perché i cittadini accettano (= reputano legittima) l’autorità politica, loro emanazione.

 I problemi europei non sono tecnici: derivano dalla diminutio della legittimità dei governanti. Sono problemi politici. La democrazia oggi è traballante: il demos è stato spodestato: parte della sovranità nazionale è stata ceduta ai ‘poteri forti’ dell’economia internazionale. Una propaganda subdola fa passare il messaggio che un’autorità illegittima – la tecnocrazia — , è la soluzione ai mali del nostro tempo. Si tratta – Berman lo sottolinea — del colpo di coda dei neo-liberisti, i quali, pur responsabili di immani disastri, continuano a denigrare il potere della politica e ad esaltare la saggezza dei mercati che si regolano da sé. Una follia realistica, purché al timone di comando ci siano i tecnocrati, non i delegati del popolo.

 Edoardo Crisafulli

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

One thought on “Il futuro (incerto) della democrazia

  1. Una “tecnica” è ovviamente un metodo applicato ad un fine. Ora, è difficile trovare un fine accettabile che il sistema bancario-finanziario internazionale abbia dimostrato di servire adeguatamente – forse neppure la propria sopravvivenza a medio termine.

    Che ci fanno, allora, i “tecnici” e gli operatori di un sistema sempre più screditato ai vertici di paesi la cui incombente rovina hanno contribuito a provocare?

    La verità è che la cosa dimostra unicamente, con riguardo alle classi politiche occidentali,
    a) la loro fondamentale unitarietà nel senso descritto da un reazionario intelligente come Gaetano Mosca (che le vede oggi divise in comitati d’affari, ma di sicuro non su alcuna scelta significativa in materia di sistema economico, regime politico, collocazione internazionale, etc.);
    b) il fatto che le stesse siano state degradate dalla definizione marxiana, all’epoca persino un po’ esagerata, di “consigli d’amministrazione del potere borghese”, a lacché delle burocrazie e dei mercati internazionali, cui del resto corpi separati e authority indipendenti dello Stato fanno sempre più direttamente riferimento (dalle banche centrali alla magistratura ai “servizi”).

    Così, maggioranze parlamentari del 90% approvano serenamente in tutta Europa politiche avversate dal 90% del paese, magari fingendo di continuare a litigare sui particolari, nella certezza che tale unanimismo bulgaro e lo spirito di tifoseria tuttora deliberatamente fomentato come simulacro dello scontro politico saranno sufficienti ad evitare che qualcuno venga sostanzialmente penalizzato nel prossimo teatrino elettorale.

    Un requiem per la sovranità popolare.

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