D’Alema ha dichiarato, per l’ennesima volta, che la social-democrazia è morta e sepolta. C’è da sorprendersi che qualcuno ancora si sorprenda. Il necrologio sulla social-democrazia è un ferro vecchio dell’armamentario ideologico comunista: era prassi che i funzionari del PCI farcissero le loro relazioni in stile politburo con una frecciatina contro la socialdemocratica. Si diceva allora, e si continua a dire oggi, che bisogna andare ‘oltre’. Dove, non si sa. L’importante è andare oltre. Tant’è che Macaluso ha inventato un neologismo, ‘oltrismo’, che rende molto bene l’idea. L’oltrismo è la malattia endemica degli ex-comunisti. La coerenza dei quali è innegabile, benché sia di quel tipo che Prezzolini definì “la virtù degli imbecilli”‘.
In verità, se c’è un concetto in crisi è proprio quello marxiano di…. crisi, il più inflazionato a sinistra (si parla, a vanvera, di crisi della social-democrazia, crisi della terza via, crisi del capitalismo, crisi della famiglia tradizionale, crisi dell’Europa ecc.). È vero che la social-democrazia europea non gode di ottima salute. Ma la questione ha due aspetti: uno generale, europeo; l’altro provinciale, cioè italiano. I compagni britannici, francesi, tedeschi, spagnoli, scandinavi, greci, hanno una bussola per orientarsi: aderiscono all’Internazionale socialista e sono fieri d’appartenere a una tradizione unitaria. Le diverse varianti del socialismo europeo – liberal-socialismo, social-democrazia, laburismo – sono affluenti dello stesso fiume. I partiti socialisti europei possono affrontare questioni teorico-pratiche intricate con animo sereno e mente sgombra da pregiudizi: come rilanciare un’azione socialista in questa fase di mutamento epocale? Cosa significa, oggi, dirsi socialisti democratici e liberali? Siamo attaccati nostalgicamente a un’identità che è solo un’etichetta, tutta apparenza e niente sostanza, oppure siamo ancora capaci di elaborare una filosofia e un programma alternativi a quelli della destra? Nella provincia italiana, invece, queste domande sono retoriche. Da noi le cose sono infinitamente più complesse e aggrovigliate. Che senso ha riflettere sui massimi sistemi se il presupposto è che il socialismo è tramontato per sempre? È come intestardirsi a parlare delle sorti del geocentrismo quando si sa che il futuro appartiene all’eliocentrismo.
Le élites politiche che dominano la scena hanno un solo interesse: certificare l’avvenuto decesso del socialismo, in tutte le sue forme: da quella social-democratica o liberale a quella comunista-totalitaria. Ne consegue che i dibattiti sul socialismo sono falsati. D’Alema & Co. non pensano a garantire un futuro alla sinistra, né a costruire un partito longevo, che abbia strategie di lungo periodo. Il loro obiettivo è rimanere avvinghiati al potere. Ecco l’anomalia italiana! Marx ci ha fatto capire che la posizione e gli interessi dell’osservatore determinano l’oggetto osservato. Nessun politico è in grado di riflettere in maniera asettica e disinteressata. Ma i socialisti europei, almeno, non sono appesi al cappio di un’anomalia come la nostra. D’Alema, e tutti coloro che lo attorniano, non sarebbero credibili neppure se lo volessero. Sono come i dannati di Dante: succubi anzitutto di sé stessi, delle loro illusioni ottiche, del loro egocentrismo.
L’insostenibile pesantezza delle classi dirigenti ha effetti disastrosi sulla nostra vita politico-culturale. È un focolaio che genera ideologia allo stato puro. Nel senso marxiano di rappresentazione falsa e distorta del reale. È naturale infatti che le élites, per rimanere, tetragone, alla plancia di comando, devono produrre fumisterie ideologiche che giustifichino la loro eternità in un mondo che muta incessantemente. Ciò spiega la fortuna del trasformismo e del gattopardismo, meccanismi culturali/antropologici inquietanti e problematici . L’ideologia nuovista che va per la maggiore è, appunto, il prodotto naturale e necessario di quei meccanismi di auto-difesa. Emblematici due
rappresentanti del post-comunismo, Veltroni e D’Alema, che hanno elaborato narrative distinte, ma convergenti. In sintesi: (a) “vuoti di memoria”, lo pseudo-kennediano che non è mai stato davvero (ma solo per finta) comunista; (b) “giacobinismo culturale”: l’ex comunista fiero d’esser stato tale, che però ha una missione: cancellare il passato della sinistra storica (che è la zavorra del Novecento).
Solo quando avremo smascherato il nuovismo per quello che è, un’ideologia falsa e bugiarda, e demolito la base culturale che la sorregge, sarà chiaro a tutti che le analisi dei post-comunisti sono il riflesso dell’anomalia italiana. Chi ha ricoperto incarichi dirigenziali nel PCI e ha creduto nel comunismo da adulto, non da ragazzo, propagandandolo ai quattro venti come la Verità della Storia; chi è sopravvissuto alla morte ingloriosa del comunismo e della Prima Repubblica; chi per vent’anni è passato indenne da una sconfitta elettorale all’altra; chi ha creato e sfasciato vari partiti (PDS, DS, PD), alimentando illusioni di rinnovamento; ebbene: chi ha fatto tutto questo non ha alcun titolo per profetizzare sul futuro della sinistra italiana.
Si badi bene: la questione non è personale: è politica da cima fondo. Guai a farne uno strumento di polemiche fini a sé stesse. Poco ci importa che venga disarcionato questo o quel cavaliere. Dobbiamo piuttosto rovesciare il cavalierato feudale, sistema anchilosato che rattrappisce le potenzialità riformatrici della sinistra italiana. Per modificare il nostro DNA culturale, dobbiamo prima averne una mappatura. Occorre un’ermeneutica della società italiana che, muovendo da Gramsci, ci faccia capire le ragioni dell’anomalia italiana. Perché le nostre classi dirigenti hanno vita eterna? Talora cooptano qualche elemento giovane, sangue fresco che però non ringiovanisce quello che è un organismo senescente. Dal dopoguerra a oggi, l’unico ricambio è avvenuto per via giudiziaria (Mani Pulite). Un ricambio molto parziale, che ha liquidato quella parte della classe politica che non aveva bisogno del gattopardismo.
“La vita eterna delle élites” è una legge ferrea della politica (e della società) italiana? Se lo è, dobbiamo forgiare gli strumenti con cui spezzarla. La Spagna ha una cultura mediterranea, neo-latina e profondamente cattolica. Proprio come l’Italia. Eppure Zapatero, esaurito un ciclo politico, esce di scena definitivamente. Da noi per oltre vent’anni D’Alema e Veltroni (e i vari comprimari) si sono riciclati e avvicendati, come in un minuetto aristocratico, in vari ruoli alla guida della sinistra. In tutti gli altri Paesi europei, finita una stagione politica, i leader vanno in pensione, ma i partiti storici non scompaiono; in Italia cambiano i partiti e le sigle, ma i leader sono inamovibili e insostituibili. Altrove il mutamento incide nella realtà delle cose, da noi è puramente di facciata; è una messinscena.
Ma il nuovismo — ovvero: partiti nuovi e scintillanti per leader mummificati, specchietti per le allodole di casa nostra — è davvero un’espressione contemporanea di meccanismi culturali atavici? Perché le élites italiane sono così vischiose e auto-referenziali? La politica è il forse una copia al carbone di una società civile immobile perché egemonizzata da camarille e gruppi di potere (economico, culturale ecc.) cristallizzati e inossidabili? Come fluidificare il sangue del nostro organismo politico e sociale? Quando sapremo finalmente affrontare questi problemi provinciali, allora sì che potremo affrontare le questioni teoriche che angustiano i socialisti europei. Quando avremo scandagliato la nostra anima e la nostra storia, allora sì che riusciremo a sapere se il socialismo avrà un futuro in Italia.
Edoardo Crisafulli