Con la crisi cambia tutto. Almeno così si dice. Ma per la sinistra le cose da qualche anno a questa parte sembrano proprio non cambiare mai. Vista così sembrerebbe una caricatura, ma non è poi troppo lontana dall’immagine che la sinistra italiana ha dato di sé all’esterno e al suo interno e non da oggi. E’ il campo riformista nel suo insieme che in questi anni, decenni potremmo dire, non ha saputo fare i conti davvero con i cambiamenti che hanno investito le società uscite dal fordismo e oggi con l’impatto della crisi. Non che questa esigenza non fosse stata avvertita. Da anni si dice che “o si cambia o si muore”. Da anni si scrivono articoli e libri sui mali dl centro-sinistra italiano, incapace di uscite dalle vecchie convenzioni, dai riti della “vecchia” politica. Così, alla ricerca della modernità dei vari testimonial chiamati a rappresentare le tante istanze della società italiana frastagliata, sono scomparse anche le strutture dei partiti e, cosa più grave, un comune sentire, un linguaggio e dei contenuti in grado distinguere il campo riformista. Ma quali sono oggi i temi che dovrebbero distinguere il campo democratico e socialista? Siamo in grado di riconoscere un insieme di valori e proposte, non sporadici, né presentati solo alla vigilia delle elezioni, capaci di comunicare istanze generali su cui costruire l’aggregazione degli interessi individuali? Perché è in una società di individui in cui viviamo. Piaccia o no il processo di individualizzazione ha scardinato i vecchi riferimenti collettivi. Per la politica è un cambiamento di prospettiva con cui occorre fare i conti. Di fronte alla perdita delle certezze e a una nuova modernità che rompe gli equilibri consolidatosi nella famiglia, nel lavoro, nel sistema di protezione sociale, l’alternativa di fondo tra il recinto identitario, sociale, territoriale, e l’apertura a nuove istanze universali entro cui costruire l’alternativa al ripiegamento su stessi è presto detta. Per la sinistra italiana la strada non può che essere la seconda, a partire dal riconoscimento di nuovi e più ampi diritti e doveri dell’individuo.
Diritti civili, dunque, ma soprattutto riconoscimento di diritti sociali, siano questi relativi alla cura e all’assistenza, alla conciliazione vita-lavoro, alla formazione, al lavoro nelle sue diverse fattispecie, all’integrazione sociale. Il tutto in un rapporto non gerarchico con le istituzioni, né demandato al solo intervento pubblico, ma in relazione con gli altri e con il contributo della società civile, dei corpi intermedi, a cui troppo spesso si guarda con malcelato opportunismo, come si trattasse di legittimare l’arretramento dello stato sociale con l’esaltazione delle possibilità di autorganizzazione delle società locali. Non è così, la sussidiarietà non ha bisogno di meno Stato, semmai di un rapporto virtuoso con le istituzioni teso a espandere le possibilità di crescita economica, sociale, civile – degli individui e dei territori nel loro insieme -, non certo a ridurle.
Si tratta per l’individuo di riconoscere e essere consapevole che la concreta realizzazione di sé non passa per la chiusura verso gli altri, né per l’allentamento dei legami sociali, ma atraverso la crescita dei margini di partecipazione insieme con gli altri. Si tratta per le istituzioni di riconoscere che l’Italia è un paese segnato da profonde disuguaglianze nella dotazione di opportunità per i singoli, negli spazi di mobilità sociale e innovazione economica, nel capitale sociale e nelle prerogative di sviluppo tra i territori. Un paese tra i più diseguali in Europa non solo in termini di distribuzione del reddito, ma anche nel tipo di provvidenze offerte dal welfare. Qui gli spazi di cambiamento davvero non mancano, dalla riorganizzazione delle cure sanitarie sul territorio, alla tanto auspicata riforma degli ammortizzatori sociali, sempre evocata ma mai effettivamente realizzata, dal potenziamento dei servizi all’infanzia al sostegno all’ingresso delle donne nel mercato del lavoro. Sono tutti campi in cui le manchevolezza di un welfare pensato per un mondo in via di dissolvimento (la grande fabbrica, il maschio capofamiglia occupato stabilmente, la centralità del lavoro dipendente) segnano crescenti iniquità.
Anche per questo l’Italia è un paese a bassa mobilità sociale, un paese che svaluta potenzialità. Un paese segnato da conflitti tra generazioni, tra garantiti e non garantiti, tra uomini e donne (tanto nell’accesso al lavoro quanto nella condivisione delle responsabilità di cura), tra aree sviluppate con livelli di benessere al di sopra della media europea e realtà pesantemente in ritardo, alle quali la politica sembra avere detto di arrangiarsi, lasciando che i circuiti clientelari continuino a soffocare le speranze di mobilità e innovazione delle giovani generazioni. L’Italia è un paese che si sta curvando su se stesso e in cui l’esasperato localismo fa da contraltare alla debolezza delle istituzioni nazionali. Un paese che non riesce a pensare di sé qualcosa che vada oltre gli interessi circoscritti di un’area territoriale, nel bene e purtroppo anche nel male. Per questo la lotta alle disuguaglianze e il sostegno all’innovazione, alla mobilità sociale, non può fare a meno di una visione nazionale che incardini questi obbiettivi in una idea di interesse generale, di bene comune. Il federalismo di cui ci possiamo giovare rischia di tradursi in una ulteriore differenziazione, se non accompagnato da misure di perequazione. Ma non è questo il punto dirimente. Se ci limitassimo a ciò saremmo ancora a rincorrere l’agenda dettata da altri. E’ questo paese in grado di ragionare sull’affermazione di un proprio interesse nazionale? Ci sono istanze generali di sviluppo che lo percorrono o dobbiamo rassegnarci alla coesistenza (per quanto ancora?) di mondi e territori con obbiettivi e interessi diversi? La risposta è che l’Italia non può fare a meno di una prospettiva nazionale, perché le condizioni internazionali ce lo richiedono e perché in fondo il grande miracolo che abbiamo conosciuto nel secondo dopoguerra non è venuto dal niente, né è stato l’esito di slanci di singole aziende, ma aveva alle spalle un sistema paese che si muoveva sull’onda di una visione comune di sviluppo. Certo, lo sviluppo della grande impresa, al prezzo di flussi migratori dal Mezzogiorno e di interventi a pioggia, ma capace, pur tra mille contraddizioni, di portare benessere e permettere a milioni di italiani di uscire da condizioni di grande svantaggio economico e sociale. Non si stratta oggi di tornare al quel sistema, né di replicarne modalità di intervento. Ma guardare a quel periodo per recuperare il senso di una visione nazionale in un quadro che è totalmente diverso, nei suoi attori, nelle sue organizzazioni produttive, nei suoi territori di riferimento. Se non ci vogliamo consegnare all’alternativa di un Mezzogiorno lasciato a se stesso, e di un Nord, certamente ricco, ma troppo piccolo per affrontare i grandi cambiamenti che stanno avvenendo nell’economia internazionale, è all’Italia nel suo insieme che dobbiamo guardare, tornando a ragionare su come affrontare i divari per intercettare le opportunità di crescita nel Mediterraneo si daranno nei prossimi anni. Se non saremo noi, perché non interessati, perché scettici, perché poco organizzati, altri paesi lo faranno sicuramente.
Andrea Ciarini