Ascesa(e caduta?) del capitalismo finanziario

Tra gli aspetti più odiosi della crisi economica che ci ha travolti nel 2008 vi è, in cima alla lista, l’imperscrutabilità dei meccanismi finanziari da cui è scaturita. Come se non bastasse pagare lo scotto della recessione, i contribuenti devono “accettare il mistero” che fa della finanza una materia oscura, inaccessibile ai non addetti ai lavori; in altre parole, devono accollarsi i danni altrui senza fare domande. La percezione dell’economia come di un corpo estraneo alla società è un risultato relativamente recente, accentuato dai progressi tecnologici dell’informatica e dalla globalizzazione dei mercati; tuttavia essa continua ad essere un fatto essenzialmente sociale, determinato dai rapporti di produzione:l’insieme dei lavori fisici e intellettuali svolti dai membri di una società. L’alone di mistero che oggigiorno circonda l’economia è proprio uno dei fattori (forse accidentale, forse premeditato) della crisi in cui siamo piombati. Le speculazioni finanziarie si nutrono giustappunto delle asimmetrie informative che, latu sensu, comprendono anche il progressivo allontanamento dell’economia dal senso comune della società, laddove la scienza economica è diventata una disciplina elitaria e astratta. Al contrario, l’economia dovrebbe concettualmente tornare ad appartenere ai legittimi proprietari, vale a dire la massa degli attori sociali che la vivificano attraverso le proprie attività quotidiane.

Lo slittamento dell’economia dal primato del sistema produttivo (la cosiddetta economia reale) a quello del sistema finanziario (il mercato borsistico dei capitali) ha avuto inizio tra gli anni Settanta e Ottanta, quando la fine degli accordi di Bretton Woods e il declino del bipolarismo internazionale hanno sbrigliato il capitalismo dalle regole e dai confini degli stati nazionali, incoraggiando la ripresa delle idee liberiste che avevano preceduto la Grande Depressione. La leva finanziaria, dacché sosteneva il sistema produttivo agevolando l’incontro tra risparmi e investimenti, si è tramutata in un gioco d’azzardo, un sistema autoreferenziale fine a se stesso che ha moltiplicato il proprio volume d’affari fino a quattro volte il valore della produzione mondiale reale. Ovviamente, il valore delle plusvalenze ricavate da certe operazioni di borsa, come gli arbitraggi o le vendite a brevissimo termine, è un dato puramente nominale che non rimanda ad un aumento materiale della produzione; in altri termini, genera una ricchezza soltanto virtuale che aumenta l’inflazione e alimenta una bolla destinata a esplodere. L’ultima, quella immobiliare gonfiata dalla sventatezza dei mutuatari subprime e scoppiata a seguito della loro insolvenza, ha innescato una vera e propria crisi sistemica, scoperchiando il vaso di Pandora del capitalismo finanziario.

Delle pratiche e dei meccanismi speculativi talvolta davvero perversi che il paradigma neoliberista ha fomentato nei trent’anni appena trascorsi, Luciano Gallino fornisce una descrizione puntuale e rigorosa in “Finanzcapitalismo” (Einaudi, 2011), titolo coniato per battezzare la forma assunta dal capitalismo contemporaneo. Nella prima parte, Gallino ricostruisce minuziosamente tutti i passaggi che hanno condotto alla crisi, svelando i trucchi adoperati dagli squali della finanza per far perdere le loro tracce: l’occultamento del rischio per mano dei derivati che spalmano i debiti privati tra migliaia di titoli tossici (le Collateralized Debt Obligations e i Credit Default Swaps), la promiscuità dei rapporti tra controllati e controllori che si avvicendano alla testa dei fondi d’investimento e degli enti di controllo (secondo la prassi delle revolving doors), i conflitti d’interesse che condizionano le agenzie di rating. Nella seconda parte, invece, si sofferma sui fattori culturali e politici della crisi, a cominciare dall’imprimatur di Milton Friedman e della scuola di Chicago che, se dapprima inspirò le misure liberiste della Thatcher e di Reagan, avrebbe poi influenzato anche la politica economica dei riformisti e dei socialisti medesimi, da Mitterrand a Craxi, da Blair a Clinton. Proprio detta sudditanza alle idee liberiste, complice dell’eccessiva finanziarizzazione dell’economia e della svalutazione del lavoro, è l’argomento su cui riflettere per comprendere non solo la crisi, ma anche lo spiazzamento e l’inadeguatezza delle sinistre di fronte alla necessità di un cambiamento di cui non sanno farsi interpreti.

Mario Trifuoggi

fondazione nenni

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