Lezioni cinesi -1-

 Nessuna società può essere florida e felice se la grande

maggioranza dei suoi membri è povera e miserabile

Adam Smith

Fra tutti gli obiettivi in competizione fra di loro e solo

parzialmente conciliabili che possiamo perseguire,

la riduzione della disuguaglianza deve venire al primo posto.

Se c’è una situazione di disuguaglianza endemica,

tutti gli altri obiettivi auspicabili diventano difficile da conseguire.

Tony Judt

 Non aveva tutti i torti David Harvey quando sosteneva che in Cina sono state applicate in maniera più ortodossa le ricette del neoliberismo. Più che nell’America di Reagan e nell’Inghilterra della Thatcher. Non è un caso che la polarizzazione della ricchezza in Cina sia praticamente identica a quella americana.

Eppure in Cina sembrano aver capito qualcosa che in Occidente ancora sfugge: la crisi economica è il frutto di una crisi sociale. Se non si risolve questa nuova questione sociale non se ne esce. E’ per questo che la Cina è diventata keynesiana e il partito comunista pare ormai ispirarsi a Beveridge (o a Bismarck?).

Non si tratta solo degli immensi investimenti nelle infrastrutture dalle ferrovie (nonostante qualche serio problema con l’altra velocità) alle autostrade.

La crisi economica ha imposto una accelerazione alle autorità cinesi rispetto al piano di marcia del XII piano quinquennale: visto il calo della domanda in USA e in Europa (calo che si farà sempre più marcato visto i piani di austerity), la Cina dovrà basare sempre più la propria crescita sulla base dei consumi interni. Ma per far ciò servono politiche sociali e del lavoro che accrescano i salari e riducano la propensione al risparmio dei cinesi. Il fine è quello di ridurre la polarizzazione della ricchezza e creare una immensa classe media che sostenga la crescita del paese.

Ecco quindi una serie impressionante di interventi in questo senso. L’introduzione del salario minimo, che quest’anno è già cresciuto del 22,6%. Attualmente la città con il salario minimo più alto è Shenzhen con 1.320 yuan (142,5 euro) al mese e Pechino su base oraria con 13 yuan. Nel complesso il XII piano quinquennale prevede nei prossimi cinque anni un aumento del 40% del costo del lavoro nelle aree urbane. Il fine è quello di raggiungere una più equa distribuzione della ricchezza nel paese e ingrossare una classe media in grado di spendere sempre più.

E ancora, copertura sanitaria pubblica universale per il 2012 ed entro la fine del 2011 le autorità cinesi hanno come obiettivo quello di garantire un medico per ogni mille abitanti, dando priorità alle aree più svantaggiate del paese. Negli ultimi due anni è stato stanziato circa un miliardo di yuan (155 milioni di dollari) per la costruzione di 25.000 cliniche e poliambulatori nelle aree rurali. Nel complesso la riforma sanitaria varata nel 2009 prevede l’impiego di oltre 124 miliardi di dollari per garantire a tutti una copertura sanitaria. Anche questa riforma rientra nella più ampia politica economica cinese (dalle esportazioni ai consumi interni): serve a ridurre la propensione al risparmio dei cittadini cinesi, che fino ad ora dovevano far fronte da soli alle spese mediche.

Dal primo luglio è in vigore la prima legge sull’assicurazione sociale, un primo importante tassello per un welfare state cinese e comprende pensioni, indennità di disoccupazione, infortuni sul lavoro, maternità e assicurazione medica. La legge si applica sia ai residenti che ai “migranti” (cioè coloro che non sono titolari di un hukou, una sorta di permesso di soggiorno) nonché ai cittadini di Hong Kong, Macao e Taiwan.

E poi ancora l’innalzamento del tetto per l’esenzione fiscale totale per i redditi più bassi dai 2000 ai 3500 yuan l’anno. E si sta portando a compimento un imponente programma di edilizia popolare.

Così facendo Pechino sta cercando di risolvere quella questione sociale che negli USA ha portato alla crisi e spegnere le cause di dissenso interno. In questo senso anche una nuova normativa per regolare la questione degli espropri e delle demolizioni: prima di abbattere le vecchie case bisognerà trovare una nuova sistemazione ai vecchi inquilini. Un principio che può apparire banale, ma che tuttavia potrebbe essere indicativo di un nuovo atteggiamento da parte del partito per le istanze che vengono dal basso, come nel caso dei tassisti in sciopero da giorni, cui è stato accordato un aumento di uno yuan a corsa.

E ancora i continui investimenti nel settore dei trasporti e la costruzione di aree suburbane per poter contenere il forte processo di inurbamento: 42 aree suburbane saranno costruite intorno a Pechino, 7 a Shanghai. E poi i tre assi fondamentali del nuovo piano quinquennale: innovazione, ambiente, lavoro.

Se la crisi, dunque, nasce dallo sfaldamento della classe media americana scivolata verso un crescente impoverimento, appare evidente che l’azione di Pechino tende ad invertire tale processo. Infatti non bisogna dimenticare che sono state le ricche classi medie occidentali a sostenere il boom economico dei Trenta gloriosi ed esse sono il frutto di una precisa azione politica, non il prodotto naturale del mercato. Krugman lo scrive a chiare lettere “quando gli economisti, allarmati dall’aumento della disuguaglianza, cominciarono a risalire alle origini della classe media americana, scoprirono con sorpresa che la transizione dalla disuguaglianza della Gilded Age, l’età dell’oro di fine Ottocento, all’uguaglianza relativa del dopoguerra non era stata una evoluzione graduale. La società middle-class dell’America postbellica era stata creata, nell’arco di soli pochi anni, soprattutto tramite i controlli salariali imposti durante il conflitto”. In questo stesso senso anche Judt “Non è vero (…) che un’economia sempre più globalizzata tenda alla perequazione della ricchezza (che è la tesi sostenuta dai più liberisti fra i sostenitori della globalizzazione). Se è vero che le disuguaglianze fra paesi diventano meno marcate, le disparità di ricchezza e povertà all’interno dei paesi in realtà aumentano. Inoltre un’espansione economica sostenuta di per sé non è garanzia né di uguaglianza né di prosperità, e non rappresenta nemmeno una fonte auspicabile di sviluppo economico”.

E’ evidente che la risposta cinese è diametralmente opposta all’austerity europea ed americana. Sul perché di tale differenza non è facile trovare una risposta univoca. Motivazioni economiche? Certamente: Pechino deve fabbricare un surrogato alle fameliche bocche occidentali. Eppure non basta. Perché in Cina stanno correndo a rotta di collo per creare un welfarestate europeo, mentre l’Occidente, sotto il diktat dei creditori, sta con leggerezza tagliando e sfoltendo, senza una apparente preoccupazione per la crescita e l’inasprimento delle condizioni sociali?

Le condizioni economiche, il forte indebitamento, la crescita stagnante dei paesi occidentali a fronte dei strabilianti numeri cinesi, potrebbero essere una risposta: la Cina può permetterselo, noi no. Eppure qualche dubbio viene, o meglio, il dubbio di Husserl, che può essere più o meno espresso così: l’Inghilterra era stremata dopo la seconda guerra mondiale eppure riuscì a costruire un avanzatissimo welfarestate. Da allora immense ricchezze sono stare create: è davvero possibile che non ci sono le risorse per ricostruire, ammodernare e potenziare un nuovo stato sociale? Viene il sospetto che si tratti di una “libera” scelta politica non di una necessità economica. Allora perchè, di nuovo, scelte differenti a Pechino e a Bruxelles o Washington?

Azzardo una risposta.

(1-continua)
Nunzio Mastrolia

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

3 thoughts on “Lezioni cinesi -1-

  1. Articolo molto interessante…di cui aspettiamo il seguito.
    Una riflessione: è indubbio che la crisi economica è il frutto di una crisi sociale, ma vi è anche una correlazione tra le guerre e le crisi economiche. L’intervento in Irak ed Afganistan, principalmente a carico degli USA, è stato finanziato tramite il ricorso al debito, in tal modo rimandando le conseguenze negative che la scelta di intervento militare ha comportato in primis negli Stati Uniti e, a seguire, negli altri Paesi occidentali.
    Alfonso Siano.

  2. Carissimo,
    innanzitutto grazie per il commento. Quanto ai punti che sollevi: non mi pare che sia “indubbio”, che la crisi economica nasca da una crisi sociale. Se così fosse gli interventi adottati per far pronte alla crisi sarebbero stati di altro tipo, invece si continua ad infierire sulla classi medie. E, a parte il caso cinese, non si vedono interventi che provino a sanare la questione sociale.
    Quanto al secondo punto è chiaro che le guerre portano indebitamento, ma possono anche essere viste come interventi keynesiani in deficit spending. C’è poi un’altra cosa, contrariamente a quanto sosteneva Pal Kennedy in Ascesa e declino delle grandi potenza, negli USA la macchina militare e la macchina economica, in parte, si sostengono a vicenda. Gli Usa producono innovazione frutto anche dello spin-off dal militare al civile. Le innovazioni prodotte dall’apparato militar-industriale, filtrano nell’economia “civile”: dal Goretex ad Internet.
    In più c’è da considerare un’altra cosa, il debito Usa è schizzato alle stelle a seguito della “nazionalizzazione” del debito delle Banche e di Fannie Mae e Freddie Mac e la questione sociale si gonfia prima degli interventi militari (senza con ciò volerli giustificare).
    Nunzio

  3. Salve, interessantissimo articolo! sto scrivendo una tesi proprio a proposito di ciò.. sapreste indicarmi dove ha reperito le fonti???grazie anticipatamente

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