Questione morale, questione politica

Sul Corriere della Sera (4 luglio 2011), Bernard-Henri Levi difende appassionatamente Strauss-Khan. Sacrosanta la denuncia del giustizialismo, che lui chiama “robespierrismo”, e della “ghigliottina mediatica” che ne è lo strumento. Noi socialisti italiani sappiamo bene di che ‘lacrime gronda e di che sangue’ la brama, perversa, di vittime sacrificali sull’altare della Dea Giustizia. Il robespierrismo, osserva il filosofo francese, è disumanizzante: trasforma le persone in incarnazioni del male da distruggere in un rito di purificazione collettiva. È così che si auto-alimenta il politicamente corretto, religione del nostro tempo. La giustizia, quella autentica, “non contrappone simboli, ma esseri umani”. Gli intellettuali radical-chic e liberal, animati da una viscerale “empatia ideologica” verso chi è povero e umile, hanno “sacralizzato” le dichiarazioni di una cameriera africana, vittima per antonomasia. Così si sono fatti irretire da un ragionamento ideologico a dir poco aberrante: “che Strauss-Khan sia colpevole, lo deduco dalla sua classe sociale”. Uno sfregio allo Stato di diritto, che si regge sull’habeas corpus e sulla presunzione di innocenza di ogni imputato. Il giudice ha un solo compito: accertare se il cittadino sotto accusa ha commesso il reato che gli viene ascritto. Il presupposto è che tutti – ricchi e poveri, potenti e umili – sono uguali di fronte alla legge. “Nessuno dubita”, continua Henri Bernard-Levi, “che la presunta vittima del presunto stupro sia vittima di un ordine sociale che paga le proprie cameriere una miseria e le tratta come bestiame”. Il giudice, però, non è il vendicatore dei soprusi. Se la società è ingiusta, allora bisogna riformarla affinché anche gli ultimi, gli sfruttati e gli immigrati diventino cittadini a pieno titolo. Per far ciò bisogna cambiare le leggi e realizzare una democrazia sostanziale, e non già politicizzare il sistema giudiziario e la filosofia che lo regola: l’eguaglianza giuridica di tutti i cittadini. La giustizia di classe o proletaria – secondo cui i ricchi e i potenti hanno torto per principio – è il frutto avvelenato di un marxismo imparaticcio, di bassa lega. La giustizia, in un Paese democratico, non è né proletaria, né borghese: è giustizia e basta. L’indignazione di Bernard-Henri Levi è comprensibile: nel giro di qualche decennio, siamo passati dalla formula “mascalzoni di poveri, i ricchi hanno sempre ragione” alla formula inversa, politicamente corretta, “mascalzoni di ricchi, sono i poveri, gli offesi ad aver sempre e per forza ragione”.

Ma possiamo limitarci a difendere lo Stato di diritto in margine alla vicenda Strauss-Kahn? Bernard-Henri Levi pensa di sì, e infatti non aggiunge altro. In realtà, la vera riflessione inizia dopo che abbiamo separato – come ogni persona assennata dovrebbe fare – politica e vicende giudiziarie. Ogni azione di un dirigente di partito, che è un personaggio pubblico, ha ricadute politiche. Che andare a prostitute, peraltro in un albergo da miliardari, sia eticamente sbagliato, è opinabile. È certamente più esecrabile il capitalista puritano che si astiene dai peccati della carne, e poi non esita un istante a speculare in borsa sul prezzo del grano, indifferente al fatto che milioni di bambini in Africa facciano la fame mentre lui si arricchisce. Piuttosto che giudicare le intemperanze sessuali di Strauss-Khan, bisognerebbe capire se ha agito come un socialista autentico quando ha ricoperto incarichi pubblici. Ma non tutti ragionano così. E infatti le prediche (o le giustificazioni) di un ‘puttaniere’ d’alto bordo non godono di molta credibilità, né aiutano la causa dell’emancipazione e della giustizia sociale. Nessuno scandalo sessuale può oscurare i meriti politici di Strauss-Kahn, il quale, a detta di molti, è stato un’ottima guida del Fondo Monetario Internazionale. Ciò non toglie che la gente comune pretende un comportamento irreprensibile dai personaggi pubblici. È moralismo d’accatto? Può darsi. Ma se andiamo in cerca di voti e di consenso, dobbiamo ascoltare la voce della coscienza popolare.

Certo, la questione morale spesso maschera la più crassa ipocrisia. Si può essere poveri, onesti e politicamente imbecilli. Oppure: poveri, onesti, politicamente geniali e…. criminali della peggior risma (pare che Hitler fosse ‘onesto’ sul piano personale). La Realpolitik è indigesta agli idealisti acchiappanuvole, perché segue più gli insegnamenti del Machiavelli che non quelli di San Francesco. Un leader politico – quante volte l’abbiamo detto! – non si giudica col metro della morale comune. Ma il punto, ahimè, è che gli elettori non sono né storici né scienziati sociali. Se la questione morale sta a cuore alla gente, allora diviene – inevitabilmente – una questione eminentemente politica. Io ho difeso Bettino Craxi e la dirigenza socialista, colpiti dalla mannaia di Mani Pulite e da un’infame gogna mediatica. Le indagini giudiziarie non sminuiscono la statura politica di un vero leader politico. Anche in quel caso, però, fu commesso un errore: i socialisti sottovalutarono il devastante impatto psicologico – e, quindi, politico – di Tangentopoli.

Bernard-Henri Levi non si pone un problema fondamentale: è ammissibile che un leader socialista diventi il simbolo vivente del Potere, nonché “l’emblema di un mondo di privilegiati”? È giusto – cioè politicamente saggio – che un partito di sinistra sia guidato da un esponente dell’aristocrazia finanziaria che, oltretutto, ostenta una ricchezza stratosferica e vive in spregio a quella che è la ‘morale comune’? Un socialista liberale, ragionando a tutto campo, non può che pervenire a una conclusione: l’empatia ideologica per gli umili è folle in un’aula giudiziaria, non lo è in politica. Perché mai non dovremmo parteggiare per le classi subalterne? Non è forse questa la ragione sociale della sinistra? Intendiamoci: un miliardario può fare cose egregie; Strauss-Khan lo ha dimostrato. Che un leader socialista sia benestante non è sempre un male. Il punto è: (a) quanto si è ricchi (un avvocato di successo non è Berlusconi o Bill Gates; una quantità enorme di proprietà, di azioni e di denaro segnala un salto di qualità); (b) che tipo di capitale si ha e, di conseguenza, quali interessi materiali condizionano la propria vita (il grande proprietario di immobili si opporrà a ogni tassa patrimoniale; vivere di rendita parassitaria, di capitali improduttivi, è incompatibile con l’ethos della sinistra – e qui, ovviamente, non mi riferisco al professionista o al pensionato del ceto medio che integra un reddito più o meno florido con i proventi di 2-3 appartamenti in affitto); (c) come si è acquisita la propria ricchezza (un conto è l’agiatezza conseguita con una onesta attività professionale o commerciale, tutt’altro conto è aver acquisito beni e ricchezze evadendo il fisco o mediante la speculazione edilizia e/o finanziaria); (d) cosa si fa con i propri soldi, cioè che stile/tenore di vita si ha (si può benissimo alloggiare in un albergo a 4-5 stelle, da trecento euro a notte; ma Strauss-Khan preferiva le suite da tremila euro, e questo è un insulto alla miseria).

Sarebbe assurdo pretendere che un socialista venda tutto ciò che possiede, lo dia ai poveri, e si dedichi alla politica come un missionario. Ma non possiamo ignorare i sentimenti degli elettori, che pretendono coerenza e dedizione dai politici. Se appartieni alla classe ultra-abbiente, se sei un iper-privilegiato e se, per giunta, vivi nel lusso più sfrenato e ti dai alle spese folli, non puoi aspettarti che il popolo della sinistra ti acclami come un messia. Decoro, umiltà e moderazione non sono valori piccolo-borghesi: sono qualità umane e politiche. I nostri leader devono rispettare – con parole e azioni – la dignità di chi lavora sodo e vive una vita frugale, scandita da sacrifici e da rinunce.

Edoardo Crisafulli

fondazione nenni

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