Una vittoria dal sapore amaro

Per l’ennesima volta, la sinistra vince alle comunali di Rimini, storico feudo rosso –in verità un po’ stinto — e mia città natale. I post-comunisti, dopo un lungo interludio (il sindaco uscente è cattolico) si riappropriano di Palazzo Garampi, sede e simbolo del potere cittadino. La vittoria ha un sapore amaro: il partito di Nencini, alleato col PD, non raggiunge il quorum e scompare dal consiglio comunale. Io stesso mi ero candidato, più per testimonianza che per altro. Neanche a Rimini la diaspora socialista si è ricomposta, sicché il voto riformista si è disperso in mille rivoli. Giacché, è bene dirlo, non ha vinto una forza autenticamente riformista e riformatrice. Ma allora perché candidarsi proprio con i socialisti di Nencini? Il punto drammatico è che non c’era alternativa. In questa costrizione, lo so, qualcosa non torna; il paradosso è troppo stridente: il bipolarismo, cioè l’alternanza tra forze contrapposte, non doveva forse restituire lo scettro ai cittadini? Così è stato, ma solo in parte. Crudeltà della politica, il bipolarismo ha ridotto in schiavitù proprio noi socialisti, che, lottando per quel sistema, abbiamo venduto l’anima al diavolo (democristiani e comunisti sguazzavano nella palude consociativa). Benedetto Croce, chissà, avrebbe invocato l’eterogenesi dei fini, e Saragat il “destino cinico e baro” che si beffa delle migliori intenzioni!

Mi spiego: finalmente possiamo schierarci senza ambiguità. E siccome siamo socialisti, perbacco, dove dovremmo piantare la nostra bandiera se non a sinistra? Ma…. – e il “ma” pesa come un macigno – la sinistra è egemonizzata dai post-comunisti, che non rappresentano il cambiamento di cui Rimini ha disperato bisogno. I post-comunisti sono i veri conservatori in questa contesa elettorale. Il PD difende formidabili interessi economici, altro che ideali!

E già, proprio i Soloni che puntavano il dito contro i socialisti della “Milano da bere” oggi animano, in tono minore, una farsesca “Rimini da bere” (un solo esempio: 1 milione di euro buttati ogni anno per la pacchiana, e inutile, diretta RAI di Capodanno – soldi che servirebbero per asili nido, assistenza sociale e cultura). Certo, nel corso dei decenni, i comunisti, o ex tali, hanno fatto anche molte cose giuste. Ma chi si avvinghia al potere prima o poi ne abusa. Non era il mitico Berlinguer a dire che “il potere logora”? Fatto sta che, in sessant’anni di strapotere, il gruppo dirigente comunista ha edificato una roccaforte quasi inespugnabile, le cui fondamenta – questa la triste verità – poggiano sulla commistione perversa politica-affari. E pensare che proprio i comunisti denunciavano di continuo l’affarismo politico dei socialisti, accusati di voler occupare poltrone d’oro e intascare tangenti.

I dirigenti comunisti, che predicano bene e a razzolano male, si sono accaparrati (e spartiti fra loro) tutti gli incarichi più appetitosi, e forse anche qualcosa di più. Così si è formato un solco tra la leadership politica e il popolo della sinistra, che lavora e paga le tasse. Anche nella Russia sovietica, del resto, la nomenklatura di partito si arrogava privilegi e un tenore di vita proibiti ai semplici operai.

Il sindaco neoeletto, rampollo di una famiglia comunista “bene”, ha quindi il pedigree giusto: ideologicamente in linea e, per di più, molto benestante. Che contraddizione c’è? “Arricchitevi, compagni!” non è forse una parola d’ordine del Partito comunista cinese?

Il problema, intendiamoci, è politico: i post-comunisti hanno appreso dai democristiani l’arte del clientelismo e l’hanno perfezionata. Un tempo la tessera comunista era il passepartout che apriva tutte le porte; oggi chi non è legato in qualche modo al PD le porte le trova sbarrate. Se conta solo l’affiliazione politica, il merito dove lo mettiamo? Ma è questa la nuova sinistra post-ideologica che sognavamo? Abbiamo lottato affinché al clientelismo democristiano se ne sostituisse uno di colore rosso? Dov’è finita la supposta superiorità morale della sinistra, sbandierata dagli ammiratori di Berlinguer?

A Rimini si è formato un blocco sociale refrattario al rinnovamento perché trae (o pensa di trarre) vantaggi dallo status quo. Pensiamo, per esempio, all’evasione fiscale, in cui Rimini eccelle. Chi ha beneficiato dell’economia sommersa, in nero? Quanti “compagni” vivino di cospicue rendite derivanti da patrimoni immobiliari creati durante gli anni del boom turistico? Che differenza c’è tra un commerciante lombardo che vota PDL o Lega sperando di pagare meno tasse, e l’albergatore o bagnino riminese che vota(va) comunista per le stesse ragioni?

A Rimini, quindi, si deve assolutamente voltare pagina. Su questo non ho mai avuto dubbi. Noi socialisti liberali abbiamo sempre creduto nell’alternanza, non nell’egemonia perenne di una sola forza politica. Ma che fare? Di andare a destra, non se ne parla neppure: il candidato del centrodestra sarà anche una brava persona, ma è pur sempre un missino della vecchia guardia. Pencola troppo a destra e, non a caso, è appoggiato con entusiasmo dalla Lega Nord. In verità, c’è una lista civica capeggiata da un ex sindaco socialista, Marco Moretti, persona stimata e professionista di valore, che mi chiede di candidarmi. C’è anche “Sinistra e libertà”, che ha un candidato e un programma interessanti. Tentenno un po’, ma poi decido, per coerenza, di sostenere il Partito al quale sono iscritto; l’unico che esibisce il colore e il nome della nostra storia. Ma così divento fatalmente un fiancheggiatore dei post-comunisti, cioè dei conservatori. La situazione è frustrante. Ma, ripeto, ho le spalle al muro: il disimpegno politico, per me, non è un’alternativa. L’unica speranza è che i socialisti siano un pungolo al cambiamento, una spina nel fianco del PD, partito degli assessori e delle poltrone. Una minoranza critica rispetto al potere dominante, che è catto-comunista. Un obiettivo difficile, quasi impossibile, perché a Rimini le forze che desiderano il mutamento scelgono la destra!

A Rimini si è riproposto il dubbio che assilla, e lacera, tanti compagni dal 1992 in poi: se andiamo a destra, sconfessiamo i nostri ideali; se rimaniamo a sinistra, infiliamo il capo nel giogo preparato dai post-comunisti del PD (qui Stefania Craxi non ha tutti i torti: noi rimasti a sinistra siamo, nostro malgrado, i socialisti della “sottomissione”) e, soprattutto, dobbiamo sorbirci un riformismo annacquato, di mera facciata. Insomma: la storia, che è imprevedibile, ci ha cacciati in un vicolo cieco. Da un lato, il bipolarismo, eredità craxiana, è la nostra stella polare. Dall’altro lato, non ci riconosciamo compiutamente in nessuno dei due schieramenti. Eppure dobbiamo scegliere…. Sappiamo qual è la radice del problema: il PD ha occupato lo spazio politico della sinistra di governo, quello del PSI e del PSDI, ma non ne ha introiettato la cultura politica corrispondente, il riformismo socialista. Finché perdurerà questa schizofrenia politico-culturale, noi socialisti dovremo combattere una battaglia di testimonianza. Non per nostalgia, ma per tenere viva la memoria di una tradizione di cui l’Italia ha bisogno come dell’ossigeno. Non è un compito velleitario, bensì la missione politica della nostra generazione. Dobbiamo avere un’incrollabile fiducia in noi stessi, convinti, per dirla con Dante, che “poca favilla, gran fiamma seconda”

Edoardo Crisafulli

fondazione nenni

Via Alberto Caroncini 19, Roma www.fondazionenenni.it

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