Perchè bisogna votare sul nucleare

Il dibattito sul nucleare tout court non è da tagliarsi con l’accetta, almeno finché se ne vogliano esaminare le prospettive scientifiche. Diverso è il caso della politica energetica nucleare, ovvero dell’opportunità concreta di affidarsi alla tecnologia nucleare per l’approvvigionamento energetico nazionale; qui serve una scelta netta, come d’altronde scaturirà dall’esito del referendum di domenica prossima, che tenga conto dello stato dell’arte di detta tecnologia e del contesto d’applicazione. Sono molte e di varia natura le ragioni che, personalmente, mi spingono a contrastare il ritorno del nucleare in Italia (le conseguenze ecologiche, la morfologia del territorio, l’impatto sociale e occupazionale) ma limiterò la mia riflessione al solo aspetto economico, volendo smentire il luogo comune che la ritrae come l’opzione più competitiva sul mercato e, pertanto, indispensabile allo sviluppo.

La competitività di un fattore di produzione, in linea generale, dipende dal costo per unità prodotto; facile a dirsi, ma le cose si complicano parecchio in ragione delle economie di scala, dei quadri normativi e di incentivazione, dei costi di capitale, di manutenzione e di dismissione. Dalla teoria alla prassi, per esempio, il costo unitario dell’energia nucleare si aggira tra gli 8 centesimi di dollaro per kWh stimati dal Massachussets Institute of Technology (MIT 2009) e gli 11 centesimi calcolati dal Department of Energy degli Stati Uniti (DoE 2010). La stessa fonte attesta i costi dell’energia eolica intorno ai 10 centesimi per kWh (DoE 2010), mentre uno studio della Duke University sostiene che i costi reali del nucleare sfiorerebbero i 16 centesimi a fronte dei 12 centesimi per kWh dell’energia fotovoltaica (NC WARN 2010). L’unica conclusione deducibile da questo labirinto di numeri (di cui i dati appena citati rappresentano solo una piccola parte) è che l’energia nucleare, ad oggi, non dimostra alcun vantaggio economico sensibile nei confronti delle energie rinnovabili (senza citare lo svantaggio acclarato nei confronti di altre fonti non rinnovabili, come il gas o il carbone). Tuttavia non vorrei ridurre la questione ad una guerra di cifre, perché circoscriverebbe le valutazioni economiche all’interno di un orizzonte troppo breve; se la politica energetica nucleare investe un arco di tempo di circa quarant’anni (una centrale ne impiega dieci per essere costruita e ne garantisce quasi trenta di attività), è giusto concentrare la propria attenzione sul lungo periodo.

L’evoluzione di qualsivoglia tecnologia può essere rappresentata attraverso una cosiddetta curva d’esperienza, che descrive la relazione fra il costo medio dell’unità prodotta e l’avanzamento di quella tecnologia; in altre parole, man mano che una tecnologia beneficia di ulteriori progressi e innovazioni tali da aumentare la sua produttività, riduce il costo unitario del proprio output. Nel caso della tecnologia nucleare, va da sé che la curva d’esperienza abbia subito un rapido appiattimento, perché la produttività della fissione nucleare è più o meno fissa: una volta scoperto come riprodurla all’interno di un reattore, per intenderci, non ci sono chissà quali margini di miglioramento per produrre più energia a parità di tempo e combustibile impiegati. Questa è la ragione per cui il prezzo dell’energia nucleare è relativamente stabile da più di trent’anni (anzi, tende a salire a causa della sottovalutazione dei costi di smaltimento delle scorie e di smantellamento delle centrali inattive). Nello stesso periodo, al contrario, la curva d’esperienza delle tecnologie fotovoltaiche ed eoliche ha continuato ad abbassarsi, riducendo i rispettivi costi unitari di circa il 70% dall’inizio degli anni ottanta (MIT 2004); il settore delle energie rinnovabili, peraltro, conserva ampi margini di miglioramento della produttività, tanto da indurre la Commissione europea ad ipotizzare, entro il 2050, il completo soddisfacimento del fabbisogno energetico dell’Unione per mezzo delle sole energie rinnovabili (EREC 2010).

Dieci anni fa, quando i verdi tedeschi accettavano di partecipare al governo di Schröder in cambio di una exit strategy dal nucleare, molti osservatori s’impegnarono a spiegare che le energie rinnovabili non erano un’alternativa credibile a causa dei costi elevati. Oggi, con un indice di crescita del 4% annuo, la Germania è il primo paese europeo ad essersi ripreso dalla crisi, grazie anche al contributo dei quasi 340 mila posti di lavoro creati dalla green economy e all’apporto che le energie rinnovabili, sempre più concorrenziali, offrono al fabbisogno energetico del paese. Fra altri dieci anni, quando i costi delle energie rinnovabili saranno ulteriormente diminuiti, i tedeschi tireranno un sospiro di sollievo per aver abbandonato in tempo una tecnologia economicamente svantaggiosa e inquinante. A conti fatti, l’accensione della prima centrale nucleare italiana coinciderebbe proprio con lo spegnimento dell’ultimo impianto tedesco nel 2020: vale davvero la pena di investire 30 miliardi di euro in una tecnologia già agli sgoccioli? Se è vero, come ho già detto, che nessuno ha diritto a interrompere il dibattito scientifico sul nucleare, è altrettanto vero che la politica energetica di una comunità costituisce un fattore essenziale e decisivo del suo sviluppo. Pertanto, mi auguro innanzitutto che ciascuno si assuma la responsabilità di partecipare a una decisione collettiva così importante in occasione dei referendum del 12 e 13 giugno; in seconda battuta, spero che prevalgano i , affinché quei 30 miliardi possano essere destinati ad un piano energetico che sia realmente competitivo, in prospettiva, per il futuro della mia generazione.

 

Mario Trifuoggi

fondazione nenni

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